Renato Di Rocco è nato nell’immediato dopoguerra, «faccio parte della categoria a rischio», da una famiglia di produttori di biciclette, le famose Romeo, si è laureato con una tesi sulla tutela sanitaria del ciclismo, in cui si occupava della terza età, è al Coni dal ‘71 come Maestro dello Sport, è stato eletto la prima volta alla presidenza della Federciclismo nel 2005, rieletto nel 2009 e nel 2013, ed è vicepresidente dell’UCI. Proprio ieri David Lappartient, il presidente francese, ha detto di essere inquieto pensando al Giro d’Italia. Di Rocco è razionale. «Stiamo lavorando per proteggere tutte le nostre corse, per ricollocarle al meglio nel calendario, riscrivendo di fatto il finale di stagione. Certo, dover proteggere il Giro sarebbe molto più difficile, speriamo tutti che non si debba arrivare a questo punto. Non sappiamo neanche cosa dirà l’Ungheria e come saranno messi loro a maggio. Dopo l’Ungheria toccherebbe alla Sicilia, che è la stata la prima a chiedere che il Giro di Sicilia fosse rinviato».
Davide Cassani, il suo ct, ha scritto che il ciclismo si ferma, ma non è morto.
«Come è giusto che sia. La salute pubblica è prioritaria, siamo di fronte a qualcosa di nuovo che modifica i nostri comportamenti. E’ ora che ce ne stiamo tutti a casa, finché serve».
La Sanremo l’aveva fermata solo la guerra. Siamo in guerra?
«Alla Sanremo vogliamo tutti bene, ma anche se si correrà a ottobre sarà sempre la Sanremo. Io devo pensare a tutti: saltano le gare di Mtb e Bmx proprio mentre gli atleti avevano bisogno di punti per il ranking olimpico, sono tanti gli appuntamenti chiave soprattutto nell’anno dei Giochi, è un danno forte».
A livello internazionale ci stanno aiutando?
«C’è disponibilità ma anche protezione di tanti interessi».
A proposito di Olimpiade. Ha sentito il Cio?
«Per il momento non ci sono preoccupazioni eccessive, stanno monitorando la situazione in Giappone, lo facciamo anche noi: gli stradisti staranno fuori dal villaggio, le nazionali di Mtb e pista a due ore e mezza da Tokyo, potrebbero essere ancora più tranquilli».
Qual è la sua prima preoccupazione in questo momento?
«Informare gli atleti: quelli che non hanno urgenza di allenarsi devono stare a casa».
Quindi possono uscire solo i professionisti?
«Anche Under 23 e Juniores, per quanto noi li scoraggiamo. Chi esce deve rispettare le regole: un metro di distanza, e il controllo costante del medico della squadra. Proteggiamo la preparazione in chiave olimpica e mondiale, anche perché fermare gli atleti di vertice vorrebbe dire discriminarli, non dargli le opportunità che hanno i loro avversari, cerchiamo di farli andare a fare gare all’estero quando sarà possibile».
E tutti gli altri?
«A casa, come gli altri italiani».
I pistard azzurri possono allenarsi?
«Certamente. Il nostro velodromo è chiuso al pubblico, faremo i turni e ci atterremo alle prescrizioni».
Che cosa succederà alle squadre italiane che non possono correre? E ai tanti massaggiatori e meccanici che lavorano a giornata?
«L’impatto economico di questa epidemia sarà un problema per tutti, si dovranno trovare delle misure per ridurre il più possibile i danni».
Oggi gli italiani sono lasciati fuori, allontanati.
«Finora è stato così, l’ho vissuto sulla mia pelle: i primi a non volerci sono stati gli israeliani, poi gli spagnoli. La Parigi-Nizza si corre ma hanno voluto soltanto italiani che vivono all’estero. Però cominciano a percepire che non è solo un problema nostro».
Le classiche si correranno?
«Credo di sì, con i limiti al pubblico. In Francia, in Belgio e in Olanda c’è una cultura diversa, i loro governi fanno un brand del ciclismo, è un bene dello stato, hanno spinto e spingeranno per non fermarlo, anche per via dei diritti tv. Non so fino a quando ci riusciranno: a fine febbraio, ai Mondiali su pista di Berlino, ci siamo accorti che avevano attivato un sistema di prevenzione, un codice nuovo, bottigliette per lavarsi le mani ovunque nel velodromo. Non dicevano nulla ma il virus c’era già».
Ha qualcosa da dire ai ragazzi che non si preoccupano perché – dicono – muoiono solo i vecchi?
«Siamo i vostri nonni, la vostra storia, il vostro Paese. State attenti anche per noi».
Ce la faremo?
«Sì, siamo italiani e sappiamo come reagire quando serve. Mio nipote Leonardo, che ha 13 anni, è a casa con mia moglie: riceve i compiti online, si trova con gli amici su Skype, si è già adattato. La natura ha voluto darci un segnale, allertarci, è come se si stesse vendicando di tutto il male che le abbiamo fatto. Dobbiamo cambiare. Ma ne usciremo».
Questa intervista è stata pubblicata dal Corriere dello Sport – Stadio (realizzata da Alessandra Giardini)