Trofeo Laigueglia, è qui la storia Nata nel 1964, la corsa mantiene intatto il suo fascino.

La migliore per aprire la rinnovata Coppa Italia delle Regioni

 

Dici Trofeo Laigueglia e racconti un pezzo di storia del ciclismo italiano. Racconti una classica diventata tale ancor prima che il “titolo” se lo guadagnasse per anzianità. Racconti un ciclismo che forse non c’è più, ma che in fondo proprio con le pedalate in Riviera resiste. Racconti una sorta di unicum del panorama nazionale, dove il territorio e le sue istituzioni sono sempre state capofila d’organizzazione un po’ più che altrove e soprattutto senza soluzioni di continuità. Proprio perquest’ultimo aspetto – di una perfetta sinergia e coniugazione di istituzioni, enti e mondo sportivo -è una coincidenza interessante che il Trofeo apra la stagione della nuova Coppa Italia delle Regioni, la challenge della Lega capace di mettere a braccetto proprio “politica” e sport, turismo e ciclismo.

La prima edizione del Trofeo Laigueglia si disputò nel 1964, solo qualche mese a distanza dall’idea di far nascere una corsa per professionisti a fine inverno in Liguria, prima della classicissima per antonomasia Milano-Sanremo, che a quei tempi si correva ancora, senza possibilità di errore, il 19 marzo, giorno di San Giuseppe. Vedere passare dall’Aurelia i campioni del pedale nella loro lunga cavalcata dalla città della Madonnina a quella dei fiori, e soprattutto il grande pubblico presente, ebbe evidentemente un peso non indifferente sulla proposta di una gara ciclistica, lanciata dalla locale azienda di soggiorno e turismo. Trovate le risorse economiche, non risultò così difficile mettere assieme ciò che serviva per fare della corsa un appuntamento già dal gran cartellone alla prima edizione. Anche perché a capo di quell’idea c’era tra gli altri Pino Villa, uomo di ciclismo che aveva avuto tra le mani Charly Gaul, l’angelo della montagna che nel 1962 con la Gazzola aveva passato un po’ d’inverno a Laigueglia. Un posto nella storia della gara se lo presero anche Giancarlo Garassino dell’azienda turistica, Angelo Marchiano dell’associazione albergatori, il socio Luigi Agnelotti, oltre al sindaco Giuseppe Giuliano. Senza dimenticare Beniamino Schiavon che dell’azienda di soggiorno fu direttore per anni.

Fin dagli anni ’40 la Riviera di Ponente, da Varazze, l’inverno lo offriva già ai ciclisti, ma in una forma, diciamo, riservata, senza pubblico. Da quelle parti da metà gennaio l’Aurelia, i Capi e il resto dell’entroterra erano già battuti a tappeto da praticamente tutti i professionisti che decidevano di svernare in bici a temperature più miti di quelle che offriva ad esempio la Pianura Padana. Così si perdono nei ricordi del bianco e nero le fotografie di Coppi che lasciava la nebbia di Castellania e Novi per trovare il sole della vicina Liguria che già si rifletteva discreto nel mare. Gli anni ’60 non avevano fatto eccezione. E gli anni ’70, anche sull’abbrivio della corsa, erano diventati ancor più frequentati. Assieme agli allenamenti i campioni ci potevano mettere pure una gara, oltretutto in parte sulle strade della Sanremo, senza dover neanche cambiare albergo. Merckx con la sua Molteni, e la sua squadra di belgi, ci stava settimane a Laigueglia, di casa al Britannia, uno dei tanti hotel che si popolavano degli eroi a pedali finiti anche sulle figurine. La corsa, insomma, aveva trovato il suo contesto ed era arrivata perfetta a misurare la condizione dei corridori a meno di un mese dal primo grande appuntamento della stagione.

La prima edizione se la aggiudicò Guido Neri, un romagnolo che ha sempre fatto vanto, giustamente, nel suo palmares di quella vittoria, anche perché gli cambiò la carriera, o meglio gliela fece proseguire. Neri nel 1964 era rimasto senza squadra dopo la chiusura della San Pellegrino, ma non si era perso d’animo andando in Riviera a preparare la gara, affrontata da indipendente, una quindicina di giorni prima grazie ad un soggiorno premio dalle parti di Alassio vinto con un traguardo volante della Milano-Sanremo dell’anno prima. Quello che sarebbe potuto essere il testimonial ideale della gara per gli organizzatori che di soggiorni facevano professione, studiò talmente bene le strade che sull’ultima ascesa della salita del Testico se ne andò tutto solo verso la vittoria. Con il successo, i fiori, il trofeo, le pacche sulle spalle, trovò anche un contratto con la Molteni! E altri sei anni e mezzo di carriera.

Era il Laigueglia dell’arrivo “stretto” in corso Badarò (abbandonato solo dopo parecchi anni per la meno insidiosa, almeno per i ciclisti, via Aurelia): frizzante e affollato di tutto, corridori e pubblico,in un insieme che profumava di competizione accesa ed entusiasmo strabordante. Era la corsa dove spesso il mare regalava già un’idea di primavera, ma il Testico, la salita regina, aveva anche la neve sulla strada. Quel Testico che un anno (era il 1990), al contrario, bruciava letteralmente, con un incendio che mise a repentaglio non tanto la sicurezza dei corridori, ma rischiò di non far finire la corsa.

L’albo d’oro per nove anni propose solo vincitori italiani, anche di spicco come gli olimpionici di Roma Marino Vigna e Antonio Bailetti. O come cuore matto Franco Bitossi. O come Italo Zilioli. O come Michele Dancelli, il sognatore nomade di Gianni Mura che a Laigueglia vinceva (1968 e 1970) e allenava la Milano-Sanremo che avrebbe fatto tornare italiana proprio nel 1970 ben diciassette anni dopo Loretto Petrucci. Gli stranieri entrarono nel libro dei vincitori nel 1973, manco a dirlo, con Eddy Merckx, il cannibale che in un paio di occasioni, prima, aveva dovuto accontentarsi della seconda posizione. Per riprendersi tutto, o quasi, si impose, anche nel 1974 in un bis consecutivo riuscito prima a nessuno e più avanti solo a Filippo Pozzato (2003 e 2004) e Francesco Ginanni (2009 e 2010). Pozzato, il bel Pippo, poi ci aggiunse il tris nel 2013, diventando a tutti gli effetti il “signor Laigueglia”, anche perché alle tre vittorie ha da sommare un secondo e un terzo posto.

Appuntamento di apertura italiana di stagione (preceduto, ma solo per un po’, da metà anni ’90 a più o meno i primi tre lustri del 2000, da Donoratico), Laigueglia ha fatto sfilare nella sua bacheca cacciatori di classiche e campioni a tutto tondo. Pure le “meteore” vincendo in Riviera si levavano in qualche modo quell’appellativo che spesso non rendeva giustizia alle fatiche del ciclista. GibìBaronchelli, tutt’altro che una meteora, al Trofeo Laigueglia inaugurò addirittura il palmares della sua carriera nel 1975. I belgi Maertens e De Vlaeminck conquistarono applausi su applausi, in mezzo si infilarono, tra gli altri Gavazzi e Saronni, intanto per fare due nomi. Quello che sarebbe poi diventato l’iridato di Goodwood (1982) si impose nel 1981 nella prima edizione dove al timone organizzativo salì il compianto ex Bruno Zanoni, quello dell’ultima maglia nera al Giro, quello buono dal sorriso grande, che a Laigueglia, dove poi stava di casa e albergo, si inventò il Muretto dei ciclisti.

Corsa sempre rapida e per ruote veloci capaci di tenere le insidie di “mangia e bevi”, come si dice in gergo, e di qualche pendenza bella, il Trofeo Laigueglia non è mai diventato una piccola Sanremo, segno evidente della forza e dell’identità tutta sua. Intatta tutt’ora. Tappa obbligata quasi per tutti, Laigueglia era, ieri più di oggi, il crocevia ideale, quasi necessario, comunque e in ogni caso, per Sanremo. Come un amuleto.

A vincere tra i tanti il danese Sorensen nell’anno dell’incendio, lo svizzero Pascal Richard, perfino l’americano Lance Armstrong, il primo texano (nel senso dell’Armstrong pre-tumore e pre-giallo, inteso come quello dei Tour tolti), quello da classiche che nello stesso anno di Laigueglia (1993 in un’annata più da scalatori che altro con Della Santa secondo e il venezuelano Sierra terzo) vinse un mondiale da tregenda, sempre al mare, ma a Oslo in Norvegia. Il corridore a stelle e strisce in un’edizione da maniche lunghe e berretta, quel giorno vinse uno sprint a ranghi ridotti dove Moreno Argentin si rialzò dando seguito a degli screzi di qualche giorno prima con il tipetto statunitense. Non vinse mai Francesco Moser (due volte terzo), ma nell’albo d’oro Laigueglia il cognome illustrece lo ha messo comunque con la stoccata del talento di Moreno nel 2012. Nel 2001 alzò le braccia al cielo Mirko Celestino, uno che Laigueglia la conosceva, la amava, la sognava, perché abitando ad Andora (tre chilometri più in là) non poteva essere diversamente. Michele Bartoli e Johan Museeuw, da eccelsi cacciatori di classiche, il Laigueglia se lo portarono a casa senza troppi problemi appena decisero di farlo seriamente. Felline, Ciccone, Velasco sono stati tra gli ultimi italiani ad aver esultato. Dal 2021 solo stranieri.

A contare i nomi forti dei podi di Laigueglia si vien matti in sessant’anni di storia: Martinello, Bettini, Gimondi, Bernal, Taccone, Zanini, in un ordine temporale sparso e parziale di nomi, ma già lusinghiero, eccome, per la gara che con un ciclismo cambiato e rivoluzionato ha saputo, anche lottando, mantenere intatto il suo fascino e il suo appeal.

Già, perché il titolo di Tuttosport per la prima edizione “Qui Laigueglia, buongiorno ciclismo” vale sempre. E tanto. Per una corsa super. Di quelle buone per i corridori, per i giornalisti, per gli appassionati. Per tutti che, nonostante mille prove in ogni angolo del mappamondo del pedale, considerano sempre la gara la bella, bellissima, che profuma di un ciclismo che non c’è più, ma non scomparirà mai. Perché davanti al mare, sotto al primo tiepido sole, con quello che una volta era odor di canfora per i muscoli, era ed è Trofeo Laigueglia. Probabilmente per sempre.

 

di Fabio Marzaglia

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